La nobile arte del sampuru, il finto cibo giapponese esposto fuori dai locali. Vediamo insieme di cosa si tratta e perché è così famosa.
Nel lontano Giappone esiste una vecchia tradizione che ancora oggi resiste e, anzi, è sempre più apprezzata: l'arte del sampuru.
Già nell'Ottocento davanti a locande e luoghi di ristoro presero a comparire piatti finti, realizzati quasi sempre in cera, che pubblicizzavano le pietanze proposte.
Lo scopo era evidente: con una composizione molto vicina all'originale, i potenziali clienti valutavano il piatto offerto e le sue dimensioni. Furono chiamati shokuhin sampuru, letteralmente - modelli di cibo - e ottennero fin dal loro apparire un successo clamoroso.
L'aumento dei contatti tra il Giappone e l'Occidente coincide con un'impennata dell'utilizzo dei sampuru: ai menù scritti in giapponese e solo poche volte replicati in inglese, si affiancano realistiche copie dei piatti proposti che facilitano non poco la scelta degli avventori stranieri.
Negli anni Trenta Takizo Iwasaki ha la brillante ispirazione di realizzare un'omelette identica a quella da gustare: è il successo!
Proprio da quest'idea Takizo parte alla conquista del mercato di sampuru, al giorno d'oggi la sua azienda - Iwasaki Be-I - è leader incontrastato nel settore. La tradizione prettamente artigianale si evolve presto in autentica arte. Perfino il famoso Victoria and Albert Museum a Londra espone alcune realizzazioni molto realistiche e di grande pregio.
Dopo i primi esemplari in cera, la produzione dei sampuru si perfezionò con l'uso del polivinilcloruro - comparso negli anni Settanta - una tipologia di plastica più duratura ma anche più costosa.
È praticamente impossibile stabilire un processo di lavorazione standard per il sampuru: troppe le richieste dei ristoratori e troppe le varianti.
Di conseguenza la produzione del cibo fake rimane totalmente artigianale e questo provoca un notevole aumento dei prezzi.
Una piccola panoramica delle tariffe: per un piccolo portachiavi con un pezzetto di sushi si spendono 1000 yen, circa 10 euro; una riproduzione di gelato con frutta e sciroppo costa almeno 10.000 yen.
Per la mentalità occidentale è difficile comprendere appieno l'importanza di una copia del nostro cibo preferito; al contrario un consumatore giapponese spera ardentemente che il pasto vero sia somigliante alla copia in plastica relativa.
Questo schema mentale spiega gli affari che si celano nella produzione di sampuru, tanto che a Tokio c'è una via intera dedicata alla fabbricazione e vendita del cibo fake.
Nel quartiere di Asakusa c'è infatti via Kappabashi-dori, in lingua inglese nota come Kitchen Town, dove i ristoratori vanno abitualmente a rifornirsi di sampuru.
La ditta più famosa, come detto, è la Iwasaki Be-I che impiega quasi settanta artigiani distribuiti in sei laboratori diversi. Gli aumenti senza freni dei prezzi del sampuru hanno portato adesso qualche titolare di ristorante a noleggiarlo. In questo modo, oltre al risparmio puro e semplice, il locale è stimolato a cambiare il menù molto più frequentemente.
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